È curioso come l’uscita della Gran Bretagna dall’UE caschi a fagiolo con il seguito del nostro post.
Mentre discutevamo di quanto la cultura anglosassone stia egemonizzando quella Latina in ambito economico/finanziario e per effetto domino in altri ambiti sociali, quasi a voler confermare l’assunto, la Gran Bretagna esprime con forza la sua sovranità e la sua identità nazionale in un referendum storico.
Tralasciando di analizzare i probabili effetti di questa decisione (troppe variabili, potremmo dire tutto e il contrario), continuiamo a parlare di crediti e immobili con un’ulteriore conferma del fatto che le nostre radici culturali e sociologiche permeano e influenzano ogni ambito di scelta, economia e politica comprese.
Per questo motivo, a meno che non si coltivino idee reazionarie, è importante comprendere che l’inglese è entrato nel nostro linguaggio e con esso nel nostro modo di intendere e vivere la realtà. Nel caso specifico del Real Estate (…), l’operatore professionale comprende che le dinamiche che guideranno questo mercato nei prossimi anni saranno profondamente diverse dalle precedenti. Con dei vantaggi.
A titolo esemplificativo e non esaustivo, prendiamo ad esempio il mutuo prima casa. L’Italia è il paese al mondo con la più alta % di prime case intestate a privati, molti dei quali si impegnano per 20 anni e più a pagare una rata importante e ingombrante pur di raggiungere lo scopo. Ebbene, fare un mutuo per comprare la prima casa è un grosso errore dal punto di vista finanziario.
So bene che agli italiani questa cosa non piace sentirla. Quando l’ho raccontato a mia madre, Lei mi ha risposto: “Non sono d’accordo, ma è giusto”.
Molte persone acquistano la prima casa facendo sforzi economici immani nella convinzione che l’immobile si rivaluti sempre nel tempo; proviamo a raccontarlo a chi ha comprato casa nel 2007, e ora vorrebbe venderla.
Altri sono convinti che abbia più senso comprare perché alla fine del mutuo (e della vita lavorativa) si ritrovano con qualcosa in mano. Riparliamone dopo che avremo fatto i conti su quanto realmente è costata la casa (interessi compresi, e nella speranza di non avere troppe spese straordinarie), che ora peraltro è una casa da ristrutturare.
Nell’impostazione anglosassone parlando di possedimenti si ragiona per attivi (“asset”); semplificando molto, attivo è tutto ciò che ti mette soldi in tasca e passivo è tutto ciò che te ne toglie. Secondo questa concezione, la prima casa è un passivo e la prima voce di spesa è il mutuo.
La distinzione tra possesso e utilizzo di un bene non è così naturale per un italiano. Per far digerire il concetto di leasing, è servito un grosso incentivo fiscale. Ora le cose stanno cambiando: la consapevolezza di questo meccanismo sta piano piano iniziando a farsi strada nel noleggio di beni di lusso/sportivi, nei beni strumentali a finalità produttiva, nel concetto stesso di sharing economy. Comprendere (e accettare) che chi utilizza un bene e chi lo possiede è meglio che non siano la stessa entità ci porterà a un minor rischio finanziario pro-capite e a una maggiore duttilità e flessibilità nelle nostre vite, così come espressamente richiesto dal mondo in cui viviamo.
Non sono d’accordo con chi sostiene che tutto ciò porterà a una standardizzazione e omogeneizzazione tout court. Penso invece che questo porterà alla luce la differenza tra i fronzoli e il valore aggiunto: gli immobili che producono reddito e che si distinguono per efficienza e/o architettura saranno valorizzati dal mercato come e più di prima.
Emanuele Grassi